Dal 1591 al 1593 il granduca di Toscana, Ferdinando I emise alcuni provvedimenti, noti come leggi livornine, in cui, per incrementare gli abitanti della neonata città di Livorno, prometteva la remissione dei debiti e l’annullamento (di parte) delle condanne penali a chi si fosse stabilito nella città labronica.
Dall’Europa ancora
dilaniata dalle guerre di religione giunsero persone delle più disparate
origini: ebrei portoghesi e spagnoli, inglesi, greci, olandesi, tedeschi, francesi. Dalla periferia
dell’Europa giunsero copiosi gli armeni, mentre dal Medio oriente si
insediarono soprattutto siriani e libanesi di religione cristiana. In questo
melting pot una posizione di preminenza, almeno a livello numerico, la ebbero
gli ebrei provenienti dal Portogallo e dalla Spagna e quindi detti “sefarditi”, che arrivarono
a costituire nel XVIII secolo il 10% della popolazione livornese.
Le comunità straniere
vennero incasellate come “nazioni” divenendo così formalmente autonome dall’autorità
granducale, mentre agli ebrei venne accordato il diritto di essere sudditi
toscani. Non furono confinati in un ghetto e poterono anche esercitare
liberamente il proprio culto.
Con il crescere della
popolazione si instaurò anche un senso generalizzato di tolleranza che portò
alla creazione di vari edifici di culto riservati ai diversi rappresentanti
delle “nazioni”, anche se per il momento solo in ambito cattolico e
cristiano-ortodosso. Le idee illuministe sulla tolleranza espresse soprattutto
da Locke e Voltaire contribuirono ad alimentare questo spirito di rispetto
reciproco, tanto che Livorno divenne terreno fertile anche per iniziative
rivoluzionarie come la pubblicazione nel 1764 della prima edizione del libro di
Cesare Beccaria “ Dei delitti e delle pene”, ad opera della tipografia
Coltellini, che fece da preludio all’abolizione della pena di morte in tutto il
Granducato di Toscana ( primo Stato al mondo) nel 1786.
Nel XIX secolo la
tolleranza si approfondì di nuove concessioni come quella di aprire nella città
anche edifici di culto di altre confessioni religiose. Nacque così la chiesa
anglicana, quella presbiteriana scozzese e quella olandese.
Gli stessi turchi che venivano fatti prigionieri dalle galee dei cavalieri di Santo Stefano avevano
almeno quattro moschee nelle quali pregare, sin dal XVII secolo. La tolleranza
si applicava anche nei loro confronti che, pur vivendo nel cosiddetto “Bagno
dei forzati” ed essendo quindi formalmente schiavi, in realtà vivevano in un
regime di semi-libertà ( come si direbbe oggi), potendo esercitare anche
attività economiche come quella del piccolo commercio al dettaglio. Fu proprio
all’interno di quel bagno penale che
Marco Coltellini aveva la sede della sua tipografia.
Anche la chiesa
cattolica livornese, molto forte e radicata soprattutto nei secoli
XVII-XVIII-XIX, fu influenzata al suo interno dalle varie comunità orientali
presenti. Ebbe persino un vescovo maronita dal 1832 al 1840, il siriano
Raffaello De Ghantuz-Cubbe.
Se gli ebrei non
conobbero mai il ghetto ed i prigionieri turchi poterono esercitare liberamente
il proprio culto, la massoneria, intesa come istituzione libero-muratoria, non
fu mai osteggiata. Livorno fu l’unica città italiana che non conobbe
persecuzioni, tanto che né con i Lorena nell’800, né con il fascismo si ebbero
fenomeni di chiusura generalizzata delle logge.
Questo clima favorevole
fu alla base della scelta di far svolgere nella città di Livorno il congresso
che sancì la fondazione tramite scissione del partito Comunista livornese nel
1921. In nessun’altra città italiana sarebbe potuto avvenire un evento di
questo genere.
L’abolizione del porto
franco e il conseguente assottigliamento del numero degli stranieri a Livorno
determinò una progressiva perdita di attenzione attorno al tema della
tolleranza. Il fascismo, a cui aderirono non pochi livornesi, demolì
fisicamente alcuni degli importanti luoghi della tolleranza livornesi, come il
bagno dei forzati e la chiesa greco-ortodossa, per far spazio alle sue
costruzioni monumentali e mastodontiche. Al resto provvidero i bombardamenti
americani della seconda guerra mondiale che sventrarono la città anche dal
punto di vista artistico e architettonico.
Mentre tutto ciò stava
accadendo un combattente livornese, Ilio Barontini, soprannominato “comandante
Dario”, insegnava la tolleranza alle tribù abissine che si facevano guerra tra
di loro. Insegnò loro soprattutto quale fosse il nemico comune ( il fascismo
nella sua versione imperialista) e per questo si guadagnò dal negus Haillè
Selassiè il titolo di “vice imperatore di Etiopia”.
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